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    Pedoni, una vita spericolata e pericolosa. Lo sanno persino a Washington

    Vignetta realizzata con l’Ai

    Che sia una vita spericolata e pericolosa quella di pedoni e ciclisti nelle folle strade delle città di questo mondo (salvo pochi esempi da seguire), conferma persino una lettera pubblicata dal Washington Post proprio oggi e che fa riferimento a un’inchiesta del quotidiano Usa sulle troppe morti di pedoni negli Stati Uniti. Su questo blog ne abbiamo accennato in riferimento al progetto di rotatoria al Ponte Coperto. La lettera descrive come camminare per le strade di Washington D.C. sia diventato pericoloso e stressante a causa del comportamento irresponsabile degli automobilisti. L’autore sottolinea il problema dell’eccessiva velocità, della guida aggressiva e del mancato rispetto delle regole stradali, nonostante la presenza di sistemi di controllo e misure di sicurezza. Vi fa suonare qualche campanello? Secondo quanto riportato dalla direttrice del Dipartimento dei Trasporti di D.C., la maggior parte delle morti di pedoni è dovuta a comportamenti antisociali e spericolati difficili da risolvere solo con soluzioni tecniche. Scrive il lettore: “Molti automobilisti passano con il semaforo giallo e rosso. La guida spericolata e aggressiva è completamente fuori controllo. Vivo su Connecticut Avenue, circa un miglio a sud di Chevy Chase Circle. Chiaramente, molti considerano il tragitto casa-lavoro una gara. I grossi veicoli passeggeri sfrecciano su e giù per la strada, e camion e grandi veicoli commerciali aggiungono ulteriore caos. ll distretto dispone di autovelox, semafori agli attraversamenti pedonali e altre misure di sicurezza, ma è la mentalità del guidatore medio che deve cambiare. Il parcheggio in doppia fila è normale e gli indicatori di direzione sono raramente utilizzati”. Sembra di essere in Italia. Purtroppo, sulla sicurezza stradale, c’è ancora troppo da fare. Ecco la lettera completa.

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    Ponte Coperto e rotatoria, le ottime ragioni della Fiab e di chi difende bici e pedoni

    Ciclisti e pedoni sempre a rischio (Immagine generata con l’Ai)

    Le proteste della Fiab e i dubbi di alcuni consiglieri comunali sulla trasformazione dell’incrocio del ponte coperto in rotatoria hanno un senso. Non tanto per il progetto in sè, che pure è discutibile, ma per i precedenti di cui Pavia è specialista. Ci sono diverse rotatorie che sono diventate un pericolo per ciclisti e pedoni non fosse altro per il fatto, ormai consueto, che le strisce pedonali sono disegnate pochi metri dopo la rotatoria stessa, in uscita, mettendo in serio pericolo i pedoni. Va poi detto che nessuno, o quasi, rispetta il principio del dare la precedenza a chi è nella rotatoria, anche perché le mini-rotatorie sono difficili da interpretare. Esempi? La rotatoria di viale Ludovico il Moro, quella di viale Cremona (una follia), quella di via Solferino con Strada Paiola, e si potrebbe andare avanti.

    L’obiettivo è giustamente quello di rallentare la velocità delle auto (ma con le mini-rotatorie non avviene) e di evitare code semaforiche. Il tutto, spesso se non sempre, dimenticandosi pedoni e ciclisti. Ma dico, ai chi disegna questi progetti, si è mai provato ad attraversare le strisce in prossimità di una rotatoria? E ancora: avete mai visto un’automobilista rallentare in vista di un ciclista? E’ molto probabile che chi disegna le rotatorie si muova sull’auto di servizio o molto banalmente se ne freghi di pedoni e ciclisti. O sia allievo di chi ha disegnato la viabilità del parcheggio Carrefour.

    Pavia a colori ci piace, basta che il colore non sia rosso sangue.

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    Pavia, record negativo: i cittadini pagano la Tari più alta della Lombardia (3,6% di aumento in un anno)

    E’ stata pubblicato oggi il report di Cittadinanza Attiva sulla gestione dei rifiuti in Italia. Un dato su tutti: Pavia ha la Tari più alta della Lombardia, con una crescita di circa il 3,6 per cento rispetto allo scorso anno. Per quanto riguarda il dato nazionale, nel 2025, la spesa media nazionale per la gestione dei rifiuti urbani è pari a 340 euro all’anno, in aumento del 3,3% rispetto al 2024 (329 euro). Le tariffe crescono – in misura differente – in tutte le regioni, ad eccezione di Molise, Valle d’Aosta e Sardegna, e in ben 95 dei 110 capoluoghi di provincia. In Lombardia una famiglia paga in media 262 euro, un aumento del 3,1% rispetto ai 254 euro del 2024. Cremona è meno cara con una tariffa media di 196 euro.

    In crescita ovunque anche la raccolta differenziata, che nel 2023 si attesta al 66,6% dei rifiuti prodotti (era il 65,2% nel 2022), In Lombardia si attesta al 73,9%. Restano marcate le differenze territoriali, con il Nord dove la spesa media si attesta sui 290 euro l’anno e una raccolta differenziata che raggiunge il 73% dei rifiuti prodotti; segue il Centro dove le famiglie spendono in media 364 euro, mentre si differenzia il 62% dei rifiuti; sempre fanalino di coda il Sud con una spesa media di 385 euro l’anno e una raccolta differenziata ferma al 59%.

    Le regioni più economiche sono il Trentino-Alto Adige (224 €), la Lombardia (262 €) e il Veneto (290 €), mentre le più costose restano la Puglia (445 €), la Campania (418 €) e la Sicilia (402 €).
    Catania
    è il capoluogo di provincia dove si spende di più, 602 euro; Cremona quello più economico con 196 euro in media a famiglia.

    Pavia, la più cara

    Come detto, in Lombardia è Pavia ad avere il costo più alto della Tari, con 302 euro medi annui a famiglia rispetto ai 291 del 2024 e un aumennto, come detto, del 3,6 per cento. Questa la tabella di sintesi:

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    Gli Usa e il costo delle piattaforme come Disney+: in Italia meglio andare al cinema

    Piattaforme digitali sempre più care negli Usa (e con pessimi film)

    Netflix, Amazon Prime Video, Disney+, etc. etc., sempre più costosi con sempre minor qualità dei film. Non è la mia personale opinione, per quanto con frustazione cerchi, la sera, un film decente da guardare. E’ l’opinione che si sta diffondendo negli Stati Uniti, ossia dove le cose accadono prima che succedano da noi in Italia e in Europa. Due giorni fa, infatti, il Los Angeles Time titolava così un suo articolo: “Streaming services raise prices — and frustration”. All’interno di un lungo e dettagliato articolo si raccontava, citando la vicenda di una famiglia-tipo, come “Sei anni fa, quando Kate Keridan si è iscritta a Disney+, il costo era di 6,99 dollari al mese, offrendo alla sua famiglia l’accesso a centinaia di film come “Il Re Leone” e migliaia di episodi di serie TV, incluse quelle di Star Wars e programmi senza pubblicità. Ma da allora, il prezzo è salito a 17,99 dollari al mese. Questo è stato il colpo di grazia per Keridan, 46 anni, che ha raccontato come suo marito abbia annullato Disney+ il mese scorso”. I prezzi raddoppiano, infatti. Il Los Angeles Time precisa ancora: “Un tempo venduti a prezzi scontati, molte piattaforme hanno aumentato i prezzi a un ritmo che, secondo i consumatori, li frustra. Le società dell’intrattenimento, sotto pressione da parte degli investitori per aumentare i profitti, hanno giustificato gli aumenti con una maggiore offerta di contenuti — ma non sempre gli abbonati ne sono convinti. Secondo la società di consulenza Deloitte, i clienti stanno pagando in media 22 dollari in più al mese per i servizi di streaming video rispetto a un anno fa. Da ottobre, le famiglie statunitensi hanno speso in media 70 dollari al mese, rispetto ai 48 dollari dell’anno precedente”.

    E da noi? Da noi il prezzo di base di Netflix, per fare l’esempio della piattaforma più diffusa, dopo un primo aumento è rimasto sostanzialmente stabile, ma con l’aggiunta della pubblicità, mentre l’abbonamento senza pubblicità è salito regolarmente. Sky, invece, ha fatto una scelta di gestione dei vari pacchetti che ha confermato sostanzialmente i costi ma dando meno servizi dopo una prima fase “a manica larga”. In buona sostanza, la possibilità di applicare aumenti come avviene degli States è minima per gli operatori, perché la crisi del Paese fa sì che in presenza di aumenti, si abbandoni il servizio. Il vero problema resta quello della qualità dei film che vengono distribuiti. Troppi, mal realizzati, spesso fotocopie l’uno dell’altro. E, purtroppo, diffusi (quelli buoni) su varie piattaforme alle quali, per scegliere, bisognerebbe essere abbonati. La cosa migliore? Andare al cinema. Costa di più, ma ne vale la pena.

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    Fondamentalismi religiosi, un pericolo sempre troppo presente

    Prima sgombro il campo da errate valutazioni: credo fermamente che, in un Paese, ogni persona che ci vive possa professare la propria religione secondo il motto, mai invecchiato, di libera chiesa in libero stato. Ma quando la religione porta agli estremismi, e nel professarla si limitano le libertà degli altri (e in molti casi delle donne e di chi la pensa diversamente, oppure delle popolazioni che condividono il territorio), allora esiste un problema che va affrontato. Ha riguardato, e riguarda ancora la religione cattolica. Riguarda, sempre di più, altre professioni. Lo nota un commento de Il Foglio che, certamente, non ha simpatie per i musulmani e quindi va preso sempre con molta attenzione. Tuttavia, un articolo-commento dal titolo “Allah e la laicità. Un sondaggio francese smentisce i sociologi delle periferie e dell’integrazione”, mi ha fatto pensare. E ci deve far riflettere sul fatto che tutti i fondamentalismi, di ogni religione, compresa quella ebraica è sottointeso, sono un pericolo. Lo riporto integralmente, poiché si tratta di un pezzo di alcuni giorni fa e non penso di rubare il lavoro a nessuno.

    Nel suo “Lo scontro delle civiltà”, pubblicato nel 1996, Samuel P. Huntington teorizzò una “Rinascita dell’islam”. L’accademico americano usò la “r” maiuscola per sottolineare la profonda frattura che il fenomeno comportava, “al pari della Rivoluzione francese”. Ora un’indagine condotta in Francia dall’Ifop, l’Institut français d’opinion publique, offre nuove conferme alla tesi di Huntington e a quella di Gilles Kepel sulla “radicalizzazione dell’islam” rispetto all'”islamizzazione del radicalismo” di Olivier Roy. Tra il 1985 e il 2025, la Francia ha visto una completa trasformazione del panorama religioso e l’islam è l’unica religione con una crescita numerica e una dinamica ideologica ascendenti. La percentuale di musulmani è salita dallo 0,5 al 7 per cento, quella dei cattolici è scesa dall’83 al 43 per cento. L’80 per cento dei musulmani si identifica come religioso, rispetto al 48 dei cattolici. Due terzi dei musulmani frequentano ogni giorno, rispetto a meno di un quinto delle altre religioni. Tra il 1989 e il 2025, la frequentazione delle moschee è più che raddoppiata. Il 79 per cento si astiene dall’alcol. Metà rifiuta il contatto con una donna. Il 59 per cento tra 15 e 24 anni sostiene l’attuazione della sharia rispetto alla laicità. Il 38 per cento approva “tutte o parte delle posizioni islamiste”, il doppio rispetto al 1998. Tutto ciò che i sociologi hanno descritto per decenni come “malesse­re di periferia” o “mancanza di integrazione” appare in questo sondaggio sotto una luce più profonda: una frattura antropologica. Per anni la Francia si è raccontata che bastasse proclamare la laicità perché tutti l’abbraccìassero come una strada irreversibile. Ma la laicità si ritrova svuotata, incapace di competere con codici identitari pervasivi. Non è un dibattito teorico e il sondaggio non è una statistica, è una crepa occidentale profonda dove si sono infiltrati i Fratelli musulmani.

  • ambiente,  cronaca,  Natura,  Oltrepo

    Il lupo è molto più furbo e intelligente di quanto possiamo immaginare. Una storia.

    Il lupo, di cui ogni tanto parliamo per la sua presenza anche in Oltrepo (a volte scende a valle), è più intelligente di quanto pensiamo. O meglio: alcuni animali, come gli orsi e appunto i lupi, sono in grado di apprendere in modi che noi pensavamo solo esclusivi degli esseri umani o, al limite, di animali come i primati. In realtà, si racconta in un bell’articolo comparso sul Washington Post di oggi ad opera di Dino Grandoni, i lupi possono apprendere in modo sorprendente. Leggiamo alcuni passi dell’articolo tradotto:

    Il lupo sembrava sapere esattamente cosa stava facendo.
    Si è immerso nell’acqua, ha preso un galleggiante da pesca e lo ha portato a riva. Poi è tornato indietro e ha tirato una corda collegata al galleggiante. Ha tirato e trascinato, tirato e trascinato, finché una trappola per granchi è emersa. Quando era alla sua portata, ha aperto la trappola e ha consumato l’esca all’interno.

    La scena, ripresa dalla telecamera sulla costa della Columbia Britannica nel maggio 2024, potrebbe essere la prima istanza documentata di un lupo selvatico che utilizza uno strumento, secondo gli scienziati che hanno pubblicato il filmato sulla rivista Ecology and Evolution di lunedì scorso.

    Sebbene l’intelligenza dei lupi sia ben nota, questa scoperta si aggiunge a una lista crescente di animali capaci di manipolare strumenti troppo grandi per il cibo, una capacità che si pensava fosse unica agli esseri umani.

    “Non è sorprendente che abbia la capacità di farlo”, ha detto Kyle Artelle, ecologo della State University of New York College of Environmental Science and Forestry che ha pubblicato il filmato. “Le nostre mascelle sono rimaste aperte quando abbiamo visto il video.”

    Quindi, occhio al lupo. Anzi, attenti al lupo.

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    Un’altra classifica: la provincia di Pavia peggiore in Lombardia per qualità della vita

    Ogni volta che qualche quotidiano pubblica una classifica di province o capoluoghi di provincia, mi vengono i brividi. L’ultima analisi, sulla qualità dei servizi pubblici, ha lasciato l’amaro in bocca con Pavia città al 73esimo posto. I dati erano stati pubblicati da Il Sole 24 Ore sulla base di un lavoro svolto da alcuni ricercatori con l’università La Sapienza. Stavolta il quotidiano economico Italia Oggi piazza Pavia provincia, per la qualità della vita, in 58esima posizione, otto posizioni peggio dello scorso anno, ultima tra le province lombarde. Tra le varie classifiche parziali, che compongono la principale, da segnalare negativamente la 64esima posizione di Pavia provincia per quello che riguarda il tasso di occupazione 18-64 anni: nel 2024 la posizione era la 45esima. Anche qui, i peggiori della Lombardia. E potrei proseguire, ma acquistate Italia Oggi che è la cosa migliore da fare. Detto questo, alcune esaltazioni della provincia di Pavia (anche della Provincia, con la “P” maiuscola), sono tutte da rivedere. Andiamo male, lo confermano i numeri. Il resto, come sempre, sono chiacchiere.

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    Qualità della pubblica amministrazione: il capoluogo Pavia in 73esima posizione

    Servizi pubblici, Pavia non è messa benissimo

    Pavia soltanto 73esima. Decisamente, si poteva fare meglio. Ma al di là delle polemiche relative ai ponti sul Naviglio, ai dirigenti più o meno licenziati e alle polemiche sull’utilizzo delle risorse pubbliche, i numeri sono come al solito l’unica risorsa che, se utilizzata correttamente, fornisce un quadro preciso dello stato dell’arte. E lo stato dell’arte ci dice che su 112 capoluoghi di provincia analizzati attraverso un complesso sistema di parametri (e su un periodo di diversi anni), Pavia rischia di sfiorare la parte bassa della classifica. La ricerca di cui parliamo, presentata l’altro ieri, riguarda il nuovo Indice Maqi sulla qualità dell’amministrazione comunale, sviluppato da ricercatori di Sapienza, Gssi e Istat su 7.725 Enti Locali e mostra che i 112 capoluoghi hanno in media maggiore capacità amministrativa rispetto agli altri Comuni, grazie a personale più istruito e a maggiori margini finanziari. Sul podio delle performance complessive dei capoluoghi sale Sondrio, seguita da Savona e Genova, mentre in coda figurano Isernia, Agrigento e Catania. L’indice, basato su 11 indicatori strutturali, politici e finanziari, evidenzia un chiaro divario Nord-Sud, con gli enti meridionali penalizzati soprattutto su rigidità della spesa, capacità di spesa e riscossione. Nel tempo migliorano livello di istruzione dei dipendenti, capacità di riscossione e flessibilità della spesa, ma continua a ridursi il numero di dipendenti per abitante. Sia chiaro: l’indice Maqui fotografa le caratteristiche tecniche, politiche e gestionali e si riferisce al Municipal Administration Quality Index, ossia un indice composito per misurare la qualità dei governi locali. È un indicatore che valuta aspetti come la qualità burocratica, la capacità, il merito dei politici locali e le prestazioni economico-fiscali dei comuni, coprendo un ampio arco temporale e quasi tutti i comuni italiani. 

    Pavia, dunque, 73esima. Perché questa posizione così bassa? Peggio di Messina, Foggia, Campobasso, Siracusa e Salerno, ossia un confronto perdente con città del nostro sud Italia che, forse con troppa retorica razzista, consideriamo inefficienti per partito preso. Dunque, perché? Innanzitutto, spiega Il Sole 24 Ore, “l’indice misura la qualità della macchina amministrativa, combinando dati sul capitale umano (anni medi di istruzione dei dipendenti pubblici), il turnover del personale (elevata rotazione può compromettere la continuità e le competenze operative), la dotazione organica (numero di dipendenti per 1.000 abitanti) e l’assenteismo (media delle assenze per dipendente)”. Inoltre, “l’indice rileva le caratteristiche strutturali della leadership locale, includendo gli anni di istruzione del sindaco e degli altri rappresentanti (vicesindaco, assessore e presidente del consiglio), la parità di genere negli organi politici e la quota di amministratori con profili white-collar (impiegati, professionisti, manager). Competenze e professionalità politica favoriscono visione strategica, progettualità e legittimazione democratica”.  Infine, “l’analisi valuta anche l’efficacia gestionale, l’autonomia esecutiva e la sostenibilità finanziaria degli enti locali tramite gli indicatori sulla rigidità della spesa (incidenza delle spese fisse sul bilancio), sulla capacità di spesa (rapporto tra spese effettive e accertate) e di riscossione (% raccolta delle entrate) e sulla quota di investimenti in bilancio”.

    Ecco, su questi aspetti Pavia deve migliorare. E di molto. Ma consoliamoci: Lecco, Cremona e Lodi stanno persino peggio. Mal comune (sic), mezzo gaudio.

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    Occupazione, le buone notizie per la provincia di Pavia (quarta in Lombardia)

    Operai in fabbrica (immagine generata con l’Ai)

    Ogni tanto una buona notizia che riguarda la provincia di Pavia. Dove, tra crisi aziendali, lavoratori massacrati dalle logistiche, cantine che si dissolvono al vento lasciando amarezza, rabbia e recriminazioni, spunta però un dato positivo. Pavia, ecco il dato, si piazza in quarta posizione in Lombardia, 32esima in Italia, per tasso di occupazione (popolazione tra i 18 e 64 anni). Con una percentuale del 68,8%, ha davanti a sè Varese, Cremona e naturalmente Milano. E’ un dato, questo, che emerge dalle ultime rilevazioni del Sistema Informativo Excelsior che mostrano anche come in Lombardia sia anche presente, in questa ottima classifica (sopra alla media nazionale del 62,6%), un lavoro di qualità medio alta. Un risultato sicuramente importante che dimostra la forza del sistema economico della regione Lombardia. Qui il tasso di occupazione non solo è superiore alla media nazionale, come detto, ma è addirittura in crescita dello 0,5% sul dato dello scorso anno. A livello provinciale, i tassi di occupazione plù elevati nel primo semestre del 2025 si registrano a Milano (73.3%), Cremona (70,6%) e Varese (69,3%). Questa la tabella riassuntiva:

    La tabella pubblica da Il Sole 24 Ore
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    Autovelox, la Cassazione “salva” ancora chi corre con l’auto (e rischia di ammazzare gente)

    Un incidente stradale (immagine generata dall’Ai)

    La prima riflessione è la seguente: chi se ne importa se l’autovelox è omologato o meno. Poiché rileva la velocità giusta, se l’hai superata ti becchi la multa e stai zitto. Anche perché il limite di velocità, nella stragrande maggioranza dei casi, è a protezione di pedoni e ciclisti. E la storia dell’autovelox “per fare cassa”, è vera solo in piccolissima parte. Basta rispettare le regole, e nessuno fa cassa (non si capisce, per esempio, per quale ragione si debbano superare i 130 km l’ora in autostrada e i 50 km l’ora in città: se qualcuno riesce a giustificarlo, me lo faccia sapere). Fine del pistolotto. E chissenefrega se si muore sulle strade. E buone notizie per chi non rispetta i limiti di velocità. Dal 1° dicembre, infatti, sono valide solo le multe rilevate dagli apparecchi inseriti nella piattaforma del Mit. Resta il nodo omologazione: a oggi i misuratori sono solo approvati. Ma anche qui la Cassazione viene in aiuto di quelli che attraversano il centro storico a 80 km l’ora: la Corte di Cassazione – ricorda un articolo del Sole 24 Ore, torna a ribadire il suo orientamento sul tema. Ossia che non è sufficiente l’approvazione degli autovelox per accertare validamente il superamento dei limiti di velocità, ma è necessaria l’omologazione degli apparecchi stessi. Con l’ordinanza 26521/25 pubblicata il 1° ottobre 2025, la Cassazione ha confermato il principio consolidato quasi 18 mesi fa con l’ordinanza 10505 del 18 aprile 2024 che ha segnato un punto di svolta per i ricorsi degli automobilisti. Per essere considerato a norma, e quindi per poter legittimamente sanzionare gli eccessi di velocità, un dispositivo di rilevamento elettronico deve essere omologato.

    Della vicenda se n’era occupata La Provincia Pavese, con un articolo di Sandro Barberis: “Abbiamo decine e decine di ricorsi pendenti, sia multe prese dai velox dalla Provincia di Pavia sia dai Comuni – spiegava Cristiano Maccabruni, referente pavese di Federconsumatori -. Le ultime sentenze non fanno che aumentare le richieste di ricorso». Un vero e proprio caos normativo. Al punti che l’Anci, l’associazione dei Comuni ed enti locali, tramite il responsabile viabilità parla di «vuoto normativo, qualcuno abbia il coraggio di dire che vanno spenti tutti gli autovelox in Italia». Solo in provincia di Pavia ci sono, tra Comuni e Provincia, 17 postazioni fisse. La stima è di oltre 60mila multe all’anno. Un conto da quasi 10 milioni di euro ogni anno. Sulla pagina istituzionale della Provincia di Pavia, ad esempio, sono allegate tutte le ordinanze per la collocazione dei velox. Ed anche i certificati di approvazione, ma non le omologazioni. Lo stesso vale anche per la pagine istituzionali di Comuni dotati di velox fissi. «Abbiamo chiesto già in diversi ricorsi i verbali di omologazione, ma non abbiamo ricevuto risposte – aggiunge Maccabruni -. Se dopo 60 giorni la prefettura o l’ente titolare del velox non rispondono, la multa decade in automatico. È già successo in molti casi» .”.