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    In ginocchio da te (alla mostra del Broletto ci vuole la vista di Superman)

    Le targhe informative: ma ci voleva tanto a posizionarle un po’ più in alto?

    Ormai è una cattiva abitudine. Con il passare degli anni, anche alla World Press Photo, le targhette con le indicazioni relative alle singole fotografie e/o all’autore hanno caratteri sempre più piccoli. Così, appunto, è capitato a Lodi durante il Festival della fotografia etica 2025, così abbiamo (clamorosamente) notato alla pur interessante e ben realizzata mostra La Forma del Ritratto che si può ammirare al Broletto di Pavia (dal giovedì alla domenica, dalle ore 15 alle ore 19, con ingresso libero). Le targhette sono, occhio e croce, all’altezza del gomito o dell’avambraccio di una persona alta intorno al metro e settanta centimetri, e costringono ad abbassarsi quasi di novanta gradi. Poi, arrivati alla targhetta, ci vuole una super vista per leggere il testo, peraltro in doppio formato, il secondo quasi minuscolo. Io sono alto un metro e ottantatrè, e proprio ho faticato ad arrivare alla targhetta. Non parliamo della difficoltà di lettura.

    Ora, le statistiche ci dicono che: 1) l’età media degli italiani è di quarantasei anni; 2) l’altezza media in Italia è di circa un metro e settantasette per gli uomini e di un metro e sessantaquattro per le donne; e infine, quasi otto italiani su dieci soffrono di disturbi visivi come miopia e presbiopia; ecco, di fronte a tutto questo, cosa accidenti ci voleva a posizionare le targhette più in alto e scegliere un carattere più grande? Le mostre non basta farle, bisogna curarle in tutti gli aspetti. Perché, è noto, il diavolo sta nei dettagli.

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    Festival della fotografia etica: un dubbio

    In coda alla biglietteria

    Ci sono scelte obbligate. Almeno per alcuni. Per quelli che vogliono sapere (o approfondire). Una delle scelte possibili, se non appunto obbligate, è il Festival della fotografia etica di Lodi. Il prossimo fine settimana sarà l’ultimo possibile per visitare la rassegna che comprende, tra l’altro, il World Press Photo. Indetto dalla World Press Photo Foundation, il concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più conosciuto al mondo, quest’anno celebra il suo 70° anniversario. Lodi è stata  l’unica città lombarda ad ospitare una tappa del suo tour itinerante che porterà la mostra in oltre 60 location nel mondo. Quasi 150 immagini che arrivano dai 5 continenti per raccontare storie incredibili. E proprio da qui voglio partire, con alle spalle l’esperienza di diversi World Press visitati in questi anni. Ho avuto l’impressione che la capacità di racconto dei fotografi delle grandi tragedie che attraversano il mondo in questi anni sia stata inferiore al solito. E a confermarlo, sempre secondo una personalissima opinione, il fatto che una delle mostre del Festival, ossia “Yugoslavia: atto finale: a trent’anni dal genocidio di Srebrenica”, fosse dal punto di vista delle forza delle immagini, della capacità di drammatico racconto, due gradini sopra persino alle fotografie dedicate al genocidio di Gaza. Magari sbaglio, magari è stata una mia personale ed erronea valutazione.

    Troppe code

    L’altro aspetto davvero negativo del Festival sono le code. Domenica 19, pur essendo arrivato alle 9.30, orario di apertura, ho evitato la coda per entrare in ogni singola mostra, solo al World Press. Ma anche lì, come in tutte le altre mostre, coda di dieci, venti minuti, tutti accalcati per vedere le fotografie, qualche spinta, l’impossibilità di ragionare davanti alle immagini. C’è troppa gente, in tutta la giornata di domenica, e questo evento così partecipato rovina un po’ l’interesse per il meglio della fotografia di fotogiornalismo (etico, ovviamente). Per godersi il lavoro di un fotografo, la soluzione migliore resta sempre la singola mostra, del singolo progetto. Ma non si può avere tutto. E poi andare a Lodi, per questo Festival, è anche un atto di salute mentale: ci ricorda che, fuori da qui, dai nostri confini, il mondo continua a soffrire, si continua a morire, l’ingiustizia la fa da padrona.

    Foto di Cinzia Canneri

    Se poi qualcuno avesse un dubbio su cosa vedere assolutamente, la mostra che mi ha convinto di più è stata “Women’s Bodies As Battlefields: corpi di donne come campi di battaglia” dell’italiana Cinzia Canneri. Uno struggente bianco e nero per un’altra struggente storia di donne.

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    Mi piaceva, ma dov’era?

    Può succedere. Mi è successo a Bologna. Camminiamo per ore da un luogo all’altro della città, spesso con gli occhi attenti ai monumenti, agli scorci, agli angoli di una città bellissima. Chi fotografa, come me, ha sguardi a volte diversi, e si concentra sull’immagine che verrà più che sull’oggetto di quella fotografia futura. Insomma, tutto questo per dire che alla fine l’immagine che pubblico qui per me ha un senso, mi piace intendo dire. Ma, diavolo!, non ricordo che chiesa fosse. Ho provato con Google Immagini, ma non ne ho trovato una simile. Oddio, segno di un’inquadratura originale. Ma non c’è qualcuno che potrebbe aiutarmi a identificarla?

    Il porticato di una chiesa (ma quale?) a Bologna
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    Castello di Agliè (Torino) / 1

    Provate a cercare su Google Immagini e vedrete che del bellissimo castello di Agliè, in Piemonte, di fotografie ce ne sono a migliaia. Una più bella dell’altra, probabilmente. Così, quando sul tardi della giornata di Pasquetta, trascorsa nel pomeriggio a far visita a una parente in ospedale, decidiamo di visitare il castello, la fotocamera in spalla pesa, anche metaforicamente. L’ora è tarda, la parte più bella dell’edificio è all’ombra, il parco è chiuso ed è possibile visitare, per un’oretta, solo il grande giardino. Ecco allora il primo scatto, che mostra una famiglia tranquilla, al sole, con alle spalle il castello di Agliè.

    Il castello di Agliè