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    L’Aquila, cantiere infinito

    Sono trascorsi undici anni dal terremoto che devastò L’Aquila. E quando si dice, retoricamente, “città ferita”, il capoluogo dell’Abruzzo ne rappresenta perfettamente il concetto. Non dico della zona rossa, inaccessibile per la maggior parte delle persone, ma dell’intera città che appare, al turista, un cantiere infinito, un insieme di impalcature che segnano quasi ogni strada e ogni edificio storico. Quello che è accaduto ha lasciato, appunto, ferite gravi e meno gravi, e una sensazione generale di provvisorio. Non è facile fotografare L’Aquila, non è facile trovare un’immagine che la rappresenti perché, nell’immaginario, anche nel proprio, l’unica idea che viene in mente è quella del terremoto. E così è finita che ho scattato le solite foto. A modo mio, s’intende.

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    Ci sono delle volte che…

    Ci sono delle volte che la fotografia probabilmente piace soltanto a te che l’hai scattata. In questo caso, è successo durante l’ultimo viaggio in Abruzzo. Con Paola e Ilaria stavamo raggiungendo il castello aragonese di Ortona – era il tardo pomeriggio – quando ho notato, nascosto da una siepe, uno spazio di un locale: tavolini, sedie, un ombrellone. Sullo sfondo, il mare e il cielo che si stava liberando dalle nuvole. Una luce blu secondo me perfetta che aveva trasformato quello spazio, quel mare e quel cielo in una sorta di dipinto. Insomma, un soggetto che non raccontava niente, ma un colore, una luce, che a me parevano magici. Ma, come premesso, probabilmente questa fotografia piace soltanto a me.

    Ortona, vista mare
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    Lungo la costa dei trabocchi

    Come spiega bene Wikipedia, la Costa dei Trabocchi è un tratto del litorale abruzzese, nel medio Adriatico, esteso lungo la strada statale 16 Adriatica e corrispondente alla maggior parte della costa provincia di Chieti. Il litorale è caratterizzato dalla diffusa presenza di trabocchi, antiche macchine da pesca su palafitta. Fra le varie teorie sulle prime apparizioni dei trabocchi sulle coste abruzzesi, una delle più accreditate li farebbe risalire al XVIII secolo. Con Paola e Ilaria abbiamo percorso diversi chilometri di questa costa in bicicletta, partendo da San Vito Chietino. I trabocchi, se non conosci il proprietario, li puoi fotografare solo dall’entrata o, con un teleobiettivo, dalla costa stessa. Hanno un loro fascino, fotograficamente parlando.

    Un trabocco sulla costa abruzzese
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    Non volevo copiare Fontana

    Ogni volta che scatto una fotografia del genere, mi sento in colpa. Come se avessi copiato durante un compito in classe. Ma non c’è niente da fare: la lezione di Franco Fontana è una di quelle che non dimentichi, che ti ritrovi sempre davanti quando affronti un paesaggio. E così, anche questa volta, guardando il mare dalla costa di Ortona, in Abruzzo, con a fianco il castello aragonese, nel momento in cui scatti ti senti (in piccolo, molto in piccolo) come Franco Fontana, E nella testa, ancor prima di fare clic, hai in mente questa immagine. Ho cercato, poi, di darle un taglio tutto verticale perché così mi piaceva.

    Il mare dalla costa di Ortona
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    Quel che resta nel buio /2

    Alla seconda chiesa ho iniziato a sospettare che i piacentini amino risparmiare sulla corrente elettrica. Dopo Castell’Arquato, anche Vigoleno ci offre una bella pieve poco illuminata. Anzi, per nulla. Al suo interno, non so per quale ragione, è come se stessero per fare un trasloco. Alcune statue in legno sono state spostate verso l’atrio e vengono illuminate dalla luce del portone lasciato appunto aperto per dare un po’ di illuminazione all’interno. Così fotografo le statue lateralmente, come fossero delle persone, sfruttando il contrasto che si crea. Insomma, ho ritratto delle “persone”, non un edificio.

    La pieve di Vigoleno
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    Quel che resta nel buio

    Domenica in giro per i colli piacentini. Entriamo in una pieve, a Castell’Arquato, completamente al buio. In un angolo c’è un meccanismo nel quale, inserendo un euro, le luci si accendono per alcuni minuti così da poter visitare la chiesa. Ma la fessura nella quale mettere la moneta è bloccata. Insomma, siamo praticamente al buio. Stiamo per andarcene, quando noto una singola luce che colpisce l’unica sedia fuori posto, staccata dalle altre, forse reduce da una messa con distanziamento. E penso che quando si fotografa bisogna sfruttare quel che c’è, perché non siamo in uno studio, il mondo ci si offre per quel che esiste, non per quello che vorremmo che fosse. E scatto questa fotografia.

    Interno di una chiesetta, a Castell’Arquato
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    “B&W, back to the basic”

    Parigi

    Traduco al volo alcuni passi dell’articolo di presentazione dell’ultimo numero della rivista “Australian Photography“, una delle mie preferite, firmato dal direttore Mike O’Connor. Articolo che dedico a quelli che sostengono, sbagliando credo, che fotografare in bianco e nero sia una sorta di alternativa all’incapacità di farlo a colori. Insomma, che sia più semplice, che sia un ripiego. “Probabilmente – esordisce O’Connor – avrete sentito la vecchia espressione che dice ‘più le cose cambiano, più restano le stesse’ che può essere applicata a molti aspetti della vita, ma che è perfetta per la fotografia in bianco e nero. Anche con tutti i progressi nell’attrezzatura e nel software che utilizziamo per scattare foto oggi, rimane un fascino senza tempo nello stile in bianco e nero che lo rende altrettanto rilevante ora come lo era nei primi giorni della fotografia.

    La forza del bianco e nero sta nella sua capacità di costringere un fotografo a concentrarsi sugli elementi essenziali del mestiere – luce e ombra – e su come questi elementi apparentemente semplici devono lavorare insieme per creare armonia visiva all’interno di una cornice. È anche uno stile che premia l’osservazione. Pensate a un tramonto con tutti i suoi toni belli e sottili che si sviluppano di fronte a voi, quindi sottraete l’unico elemento che lo rende così accattivante: il suo colore. Allora, cosa resta? Cosa avete fotografato? Questa è la sfida del bianco e nero. Non solo richiede di scattare senza la “stampella” del colore su cui appoggiarvi, ma vi chiede anche di “distillare” la vostra immagine riducendola ai suoi elementi più primari mentre state decidendo di fotografare”.

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    Indigestione di colore (Burano)

    Per uno come me, che ama fotografare costruendo e pensando in bianco e nero, Burano è un risveglio brutale nel mondo del colore a tutti i costi. Oddio, non che non si possa fotografare in bianco e nero anche lì, ma il colore ti chiama prepotentemente. Così, ho scelto quattro fotografie che provano a raccontare appunto la tavolozza cromatica di quel paese immerso nella laguna veneta.

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    Un classico dei classici

    Se qualcuno, guardando questa fotografia, mi contesterà che è la “solita foto di Burano”, avrà probabilmente ragione. Ma quando con il traghetto, per la prima volta, scopri questo panorama, sembra unico, disegnato soltanto per te e non per i milioni di viaggiatori che hanno avuto il piacere di osservarlo. E così, come uno dei tanti singoli viaggiatori, ho scattato la solita foto. Con il solito piacere, poi, di rivederla e di farla vedere agli altri.

    Burano, arrivando con il traghetto
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    Rifarsi la coda

    Ci sono gesti che attirano l’attenzione di un fotografo e magari non quella di un altro. Forse è questa la ragione per cui questa forma di arte mantiene ancora intatto il suo fascino. E così, mentre attraversavamo la laguna veneta tra le isole di Burano e Murano, la donna seduta qualche fila davanti a me ha iniziato una serie di nervose operazioni per rifare la coda ai capelli, sotto lo sguardo delle due passeggere davanti a lei. Mi è venuto istintivo fotografarla.

    Sul traghetto per Murano