cronaca
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I nuovi data center di Bornasco, ecco le prime immagini del progetto approvato. Un secondo impianto in arrivo (le altre immagini)

Il data center di Microsoft a Bornasco I data center. Gioie e (tanti) dolori. Il problema dei consumi dei data center per l’intelligenza artificiale (AI) è legato a un enorme fabbisogno energetico e idrico. I data center che processano modelli di AI consumano molta più energia rispetto ai data center tradizionali, si parla di consumi da 4 a 5 volte maggiori. Ciò è dovuto sia alla potenza di calcolo richiesta dagli algoritmi, sia ai costi energetici per il raffreddamento delle apparecchiature, che rappresentano circa il 40% del totale dell’energia utilizzata. In termini numerici, i data center oggi consumano circa l’1-1,3% dell’elettricità mondiale, con stime che prevedono un raddoppio entro il 2030, raggiungendo consumi annuali tra 800 e 900 terawattora (TWh). Questo aumento è trainato dalla crescita esponenziale dell’uso di AI generativa. Per esempio, un singolo utilizzo di ChatGPT può richiedere fino a 10 volte più energia rispetto a una ricerca Google standard. Oltre all’elettricità, i data center hanno anche un elevato consumo di acqua, necessario per i sistemi di raffreddamento. Questo aspetto ha un impatto ambientale su scala locale, specialmente in zone con risorse idriche limitate.
Uno di questi grandi data center sarà realizzato da Microsoft a Bornasco. “Bornasco – scrive il sito Irp Media -è un piccolo comune della provincia di Pavia, a circa 35 chilometri da Milano. Con poco più di 2.600 abitanti distribuiti su 12 chilometri quadrati, rappresenta una delle tante realtà di campagna lombarda, lontana dal clamore urbano e dai grandi snodi infrastrutturali. Almeno in apparenza. Qui, su un’area di circa 165mila metri quadrati, circa l’1,3% del territorio comunale, sta per sorgere un data center gestito da Microsoft e, di recente, l’amministrazione comunale ha approvato i piani per la costruzione di un secondo su una zona verde coltivata. Questa seconda proposta è stata depositata dalla società Vld – Valtidone Logistic Development Srl che il 3 aprile 2025 ha ricevuto dalla giunta comunale l’approvazione del piano di lottizzazione, ovvero lo schema che definisce come verrà suddivisa e utilizzata l’area: dove sorgeranno gli edifici, quali saranno gli accessi, gli spazi verdi, i parcheggi. Un atto che non dà ancora il via ai lavori, ma che apre ufficialmente la strada alla realizzazione del data center“.
Il “caso Bornasco”
Recentemente, per quanto riguarda Microsoft, sono arrivate tutte le autorizzazioni e al ministero è stata depositata tutta la documentazione. Impossibile entrare nei dettagli, ma nella documentazione ci sono anche le immagini di come sarà il progetto. Eccone alcune:







Alcune delle immagini del progetto L’articolo de La Provincia Pavese di Stefania Prato sul secondo progetto di Bornasco “Sulle ceneri del progetto poi naufragato di portare a Bornasco un insediamento logistico, ecco comparire all’orizzonte il piano “B”: sarà un data center a prenderne il posto, con la firma, ora come un anno fa, della società Valtidone Logistic Development di Assago. A febbraio 2024 era stato infatti deciso solo un mezzo passo indietro nel senso, che si ammainava bandiera bianca sull’idea di un’attività di tipo prettamente logistico, lasciando nel contempo campo ad un’alternativa che ora è stata individuata in un data center.
L’istanza che avvia l’iter di adozione del piano di lottizzazione relativo è stata depositata qualche giorno fa in municipio. L’intervento si localizza in un comparto collocato ad ovest del centro abitato comunale, attualmente coltivato, in adiacenza alla strada provinciale 205 “Vigentina”, su una superficie di oltre 67.000 metri quadri, dei quali circa 20.000 occupati dal corpo di fabbrica del data center vero e proprio. Poco più di 4mila metri quadrati vedranno la realizzazione di un’area verde da asservire all’uso pubblico e circa 1.500 metri quadri saranno occupati dalla strada di accesso all’ambito, ma entrambi questi interventi non saranno oggetto di scomputo degli oneri dovuti.
Cosicché, gli impegni economici assunti dall’operatore ammontano a quasi 820.000 euro per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, cui si aggiungono 50.000 euro dalle maggiorazioni per gli interventi compensativi e mezzo milione da destinare alla riqualificazione di aree da dedicare ad attività sportive, sociali e di aggregazione.
Il centro di elaborazione dati avrà (all’inizio) una potenza indicativa inferiore a 50 Megawatt. Il data center raggruppa tutte le apparecchiature e tecnologie necessarie al funzionamento del sistema informativo di un’azienda. Quello previsto a Bornasco conta di impiegare circa 50 addetti, distribuiti tra aree amministrative e sala server.
«Il progetto per la realizzazione di un nuovo data center a Bornasco- spiega la sindaca Roberta Bonetti- prevede la costruzione di un edificio nell’area vicina alla rotonda di Bornasco. Dal punto di vista economico, il progetto ci consentirà di ottenere risorse per investimenti sul nostro territorio, dal momento che introiteremo in totale una cifra vicina a 1,5 milioni di euro». —”
Anche su questo secondo progetto ci sono già le immagini progettuali. Eccole:






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Ma quanto sono bravi i dirigenti (e i funzionari) dei nostri Comuni (come i giudici, peraltro)

Premi ai dirigenti, tutti bravissimi (come i magistrati) Ci sono due categorie di professionisti della cosa pubblica di cui dobbiamo essere orgogliosi: i magistrati e i dirigenti. A dirlo non sono io, naturalmente, ma sono, da un lato, il Csm (organismo di autogoverno dei magistrati stessi) e le amministrazioni comunali, che giudicano dal loro interno i dirigenti tramite un organismo di valutazione. Ricordo di aver scritto, sulla Provincia Pavese, alcuni mesi fa, come l’amministrazione comunale di Voghera avesse valutato con voti (e premi) altissimi i suoi dirigenti, una media di 99 punti su 100. Quasi lo stesso ha fatto il Comune di Pavia dove, a leggere i dati, tutto funziona alla perfezione. Le performance dei dirigenti del Mezzabarba (dato 2024) hanno infatti raggiunto quota 95,7 su cento, mentre le “posizioni organizzative”, insomma i funzionari, quota 97,1 su cento. Qualcuno potrebbe, ingiustamente si intende, obiettare che non tutto funziona così alla perfezione a Pavia. Beh, sempre i numeri, ci dicono che è “colpa” del personale la cui quota percentuale è tra l’80 e il 90 per cento. Comunque buona. Insomma, Pavia è un piccolo gioiello di buona amministrazione. Certo, non raggiungerà mai le vette di Voghera, ma non si può tutto. Se qualcuno volesse approfondire il dato di Pavia, può andare a leggersi un corposo Pdf dall’altisonante titolo”Relazione finale sulla performance anno 2024 – Monitoraggio del Piano Integrato di Attività ed Organizzazione (P.I.A.O.)” da cui abbiamo tratto questi dati.
La questione giudici
Dicevamo dei magistrati. Scrive il quotidiano “Il Dubbio”: “Tra il 1° gennaio 2021 e il 21 ottobre 2025, sono stati valutati 9.797 magistrati ai fini della progressione di carriera. I dati, comunicati dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in risposta a un’interrogazione parlamentare, fotografano un quadro quasi perfetto: il 99% dei magistrati riceve giudizi positivi. Nel 2021, su 2.103 valutazioni totali, 2.092 risultano positive. Percentuali simili anche negli anni successivi: 99,23% nel 2022, 99,41% nel 2023, 98,85% nel 2024 e 98,69% nel 2025.
Solo 47 magistrati in quattro anni e mezzo hanno ricevuto una valutazione negativa o non positiva. Numeri che per Enrico Costa, deputato di Forza Italia e vicepresidente della Commissione Giustizia, rappresentano la prova di un meccanismo autoreferenziale e opaco. «Numeri bulgari. Tutti bravissimi. Eppure, il Csm dovrebbe valutare la capacità di ogni magistrato anche in base ai risultati del suo lavoro: inchieste flop, arresti ingiusti, sentenze ribaltate», ha dichiarato Costa.”
E infatti, come la pubblica amministrazione, anche la giustizia funziona come un orologio svizzero. Perché mai bisogna riformarle?
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Pavia criminale (più di quel che pare): il rapporto del Viminale 2025 (dati 2024)

In aumento la criminalità anche a Pavia (foto da Ai) I dati diffusi ieri dal Viminale sulla situazione della criminalità in Italia sono preoccupanti. Come vedremo dalla sintesi più avanti, sono dati in aumento. Ma quello che sorprende, è che la provincia di Pavia abbia il rapporto peggiore tra numero di abitanti/numero di reati in Lombardia: risulta infatti 21esima tra le province italiane la peggiore tra quelle lombarde (Milano esclusa) e seconda in classifica tra le province lombarde per crimini violenti. Complessivamente, rispetto al 2023 (i dati sono del 2024), l’aumento dell’indice di criminalità è stato dell’1,38%. Da segnalare la settima posizione in Italia, brutto risultato, per le denunce di danneggiamenti.
Ecco la tabella elaborata grazie al sito de Il Sole 24 Ore:

La tabella de Il Sole 24 Ore sulla provincia di Pavia Per il resto, nel 2023 i capoluoghi lombardi presentavano valori significativamente più elevati di criminalità rispetto alle rispettive province — Milano domina per quasi tutte le tipologie di reato, con l’eccezione dei furti in abitazione, dove prevale Bergamo.
Milano: indice di criminalità appropriativa nel 2023 di 53,21 (capoluogo) e 19,16 (provincia); per la criminalità violenta: 39,09 nel capoluogo e 15,92 nella provincia.
Sondrio è la provincia con i valori più bassi (furti: 5,54; reati violenti: capoluogo 33,68; provincia 10,05). Monza risulta la più sicura come indice di criminalità violenta (17,77).
Province con indici più alti di criminalità violenta: Brescia (16,72), Milano (15,92), Pavia (15,31), Varese (13,94). Per città: Brescia (34,9), Bergamo (34,03), Mantova (32,06), Como (28,92), Cremona (27,69).
Effetto covid: tra 2011 e 2020 tendenza decrescente ovunque, minimo nel 2020 per restrizioni. Tra 2020 e 2023 nuova crescita dovuta alla ripresa delle attività sociali ed economiche.
Questa la classifica con la 21esima posizione di Pavia:

La tabella nazionale sempre da Il Sole 24 Ore -
Sicurezza informatica, Pavia come al solito sta peggio della media nazionale

Pavia messa male per la cyber security (foto da Ai) I dati della ricerca pubblicata da I-Com mostrano un’Italia a due facce: da un lato in ottima posizione (rispetto alla media europea) sulla creazione delle reti, quindi sul fronte infrastrutturale; dall’altro, molto ma molto indietro sulla digitalizzazione, in particolare delle piccole e medie imprese. Sul terreno delle competenze digitali e della digitalizzazione delle imprese – sintetizza un articolo de La Repubblica – il ritardo diventa macroscopico. Il report calcola che, agli attuali ritmi, l’Italia raggiungerà il target europeo di PMI digitalizzate solo nel 2152 e quello sulle competenze digitali di base nel 2481: una distanza che fotografa con chiarezza la sfida ancora aperta. Oggi solo il 27,2% delle imprese italiane è pienamente digitalizzato (contro una media UE del 34,3%) e appena il 17,9% offre corsi di formazione ICT ai propri dipendenti. Gli specialisti ICT rappresentano il 4% dell’occupazione totale, la metà dell’obiettivo europeo. Nel frattempo, la popolazione procede a passo lentissimo: appena +0,2% nel 2024 per le competenze di base, segno che il Paese non ha ancora trovato la chiave per trasformare l’offerta tecnologica in capacità diffusa”.
Sicurezza informatica
Anche sul fronte della protezione dei dati digitali, che a volte sono fondamentali per le aziende, persino per la loro sopravvivenza, l’Italia e la provincia di Pavia hanno i loro problemi. Questo dato emerge leggendo il Rapporto Nazionale PID Cyber Check 2025. Ecco i dati che riguardano la provincia di Pavia:
- Numero aziende coinvolte: 2.928 imprese italiane hanno partecipato all’indagine, incluse numerose PMI di Pavia e Lombardia.
- Settori e tecnologie diffuse a Pavia:
- Maggioranza di PMI, spesso attive in manifattura, servizi, commercio e filiera sanitaria.
- Alta penetrazione di dispositivi IoT, server aziendali e utilizzo di servizi cloud.
- Misure di sicurezza e consapevolezza:
- Solo il ~38% delle aziende pavesi dichiara di avere politiche di sicurezza formalmente definite.
- Solo il 17% possiede un responsabile ufficiale della sicurezza informatica (molto inferiore alla media nazionale del 25%).
- Il 52% delle aziende si affida a backup periodici (in linea col dato regionale), ma solo il 32% effettua test periodici dei backup stessi.
- Gestione password e accessi:
- Solo una minoranza usa autenticazione a due fattori (18%).
- Le politiche di gestione password sono spesso deboli: solo il 27% adotta l’obbligo di cambio regolare e complessità minima.
- Aggiornamento sistemi:
- Il 44% delle aziende aggiorna software e sistemi “solo quando necessario” invece che sistematicamente, aumento del rischio exploit.
- Incidenti più frequenti:
- In Pavia, le tipologie principali di attacco dichiarate sono phishing/social engineering, malware e violazioni su dispositivi IoT come telecamere e centraline.
Confronto dati statistici: Pavia vs media nazionale
Indicatore Provincia di Pavia Media nazionale (PMI) Aziende con policy formali di sicurezza ~38% 49% Responsabile ufficiale IT Security 17% 25% Backup regolari 52% 54% Test periodici dei backup 32% 41% Autenticazione a due fattori (2FA) 18% 28% Gestione password avanzata 27% 35% Aggiornamento sistematico sistemi 56% aggiornano regolarmente 67% aggiornano regolarmente Incidenti segnalati (ultimi 12 mesi) Phishing, malware, IoT Phishing, malware, ransomware - Le aziende di Pavia sono sotto la media nazionale per quasi tutti gli aspetti di sicurezza organizzativa e tecnica: meno policy formali, meno referenti IT, meno procedure per password e per backup avanzato.
- L’adozione di misure tecniche quali 2FA e la gestione password avanzata è sensibilmente più bassa rispetto al quadro nazionale.
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Pulcini maschi uccisi prima di nascere (per loro fortuna, potremmo dire)

Immagine generata dall’Ai “L’abbattimento selettivo dei pulcini maschi avviene perché, nelle linee genetiche selezionate per la produzione di uova, non sono economicamente utili. I pulcini maschi vengono eliminati poco dopo la schiusa tramite metodi come la triturazione o il gasaggio”. Decisamente crudele. Nascere maschi, tra gli uccelli da allevamento, non è esattamente un bel destino. Per fortuna, dal 2027 le cose cambieranno. Riportiamo dal sito del quotidiano La Stampa: “Dopo mesi di campagne e pressioni da parte delle associazioni animaliste, il Governo italiano ha pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che segna una svolta storica per l’industria delle uova. A partire dal 31 dicembre 2026, sarà vietato l’abbattimento sistematico dei pulcini maschi appena nati, una pratica che fino ad oggi portava ogni anno alla morte di circa 34 milioni di animali. Il provvedimento stabilisce le linee guida per l’introduzione delle tecnologie di sessaggio in ovo, che permettono di identificare il sesso dell’embrione prima della schiusa. Il decreto del 4 settembre 2025, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, stabilisce le modalità di adeguamento degli incubatoi italiani alle nuove tecnologie per il sessaggio in ovo e definisce le misure di trasparenza da adottare nei confronti dei consumatori.
Le aziende avranno tempo fino alla fine del 2026 per adattare strutture e macchinari e potranno comunicare in etichetta che le loro uova provengono da allevamenti che non ricorrono all’abbattimento dei pulcini maschi.
Il decreto introduce anche la possibilità di aggiungere QR code o link informativi sulle confezioni, con l’obiettivo di favorire la sensibilizzazione sul benessere animale. Le informazioni diffuse dovranno essere “veritiere e verificabili”, come precisa il testo, e in caso contrario scatteranno sanzioni”.
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Soldi dimenticati, soldi buttati e soldi risparmiati (sempre di meno, purtroppo)

Foto generata dall’Ai Simone Spetia durante la rassegna stampa di Radio 24, che ascolto ogni mattina, questa volta ha superato la sua pur nota capacità di fare collegamenti tra le varie notizie della giornata comparse sui quotidiani. Stavolta ci racconta bene come “non” funziona la gestione del bene pubblico, che non è questione di destra o sinistra, ma di un’apparato dirigente e di alti funzionari dello Stato non in grado di far marciare la macchina amministrativa del Paese (o di costruire un ponte sul Naviglio o di rimettere a norma in tempo utile l’unica biblioteca civica di una città, due casi così per dire). Durante il consiglio dei ministri, infatti, la Meloni, a fronte delle richieste di soldi per una spesa o per l’altra, per un taglio da evitare o un altro da limitare, ha sbottato: ma utilizzate invece i fondi di coesione. Già, i fondi di coesione. Non voglio annoiare, ma – ricordava appunto Spetia durante la rassegna stampa – la bistrattata Europa ha assegnato all’Italia 74 miliardi di euro (settantaquattro) da spendere in otto anni. Ebbene, dopo quattro anni l’Italia è riuscita a spenderne non la metà, come sarebbe ragionevole credere, ma soltanto l’8 per cento. I ministeri chiedono soldi ma non sanno utilizzare quelli che hanno (e neppure le Regioni, in parte beneficiarie di quei fondi). Scrive infatti il Sole 24 Ore nell’articolo che potete trovare on line: il monitoraggio “fotografa la situazione dei fondi strutturali esattamente a metà del guado: al 31 agosto del 2025, quindi dopo quattro anni e mezzo e quando ne mancano quasi altrettanti alla scadenza per la rendicontazione dei pagamenti (fissata al 2029) – la spesa è ferma a poco meno di di 6 miliardi cioè l’8 per cento dei 74,8 miliardi (42,7 di risorse europee e 32,1 di cofinanziamento nazionali) disponibili in totale tra fondi Fesr, Fse+, Just transition fund e Feampa. La quota di risorse impegnate è invece pari al 27,1 per cento”.
E io pago (anzi, io soffro): va mica tanto bene, caro governo
Mentre i ministeri, gli alti funzionari, i grandi e piccoli dirigenti di Stato, di Regioni e di Comuni, non riescono a spendere, o spendono male (quando non sprecano) i soldi che hanno a disposizione, il resto del mondo, ossia le famiglie italiane faticano sempre di più ad arrivare a fine mese. Non lo sostiene qualche pericoloso comunista e non si tratta di bugie dell’opposizione. No, lo dicono i numeri, le statistiche, ossia ciò che chi governa odia di più. Infatti, leggiamo su Milano e Finanza, che solo il 41% delle famiglie italiane riesce a risparmiare qualcosa, il 5% in meno dell’indagine precedente. Insomma, ci sono meno soldi e quelli che ci sono vengono spesi tutti. Nel 2025 le famiglie che risparmiano sono il 41%, in contrazione rispetto al 46% del 2024, il dato più basso dal 2018. “E anche le aspettative per i prossimi 12 mesi indicano una ulteriore flessione della capacità di risparmio. La conseguenza di questa crescente difficoltà a risparmiare, unita a una decisa volontà di farlo anche per le famiglie in difficoltà, è che tre italiani su quattro sono in grado di affrontare spese di piccola entità (1.000 euro), ma è sempre più ridotto il numero di famiglie (36%) che può assorbire senza problemi una spesa rilevante (10.000 euro). É quanto emerge dall’indagine realizzata da Acri in collaborazione con Ipsos, in occasione della 101esima giornata mondiale del risparmio”.
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Consumo di suolo, Pavia messa maluccio (il nuovo rapporto Ispra 2025)

Immagine generata dall’Ai Il territorio italiano cambia ancora: nel 2024 sono stati coperti da nuove superfici artificiali quasi 84 chilometri quadrati, con un incremento del 16% rispetto all’anno precedente. Con oltre 78 km2 di consumo di suolo netto si tratta del valore più alto dell’ultimo decennio. A fronte di poco più di 5 km² restituiti alla natura, il quadro resta sbilanciato: ogni ora si perde una porzione di suolo pari a circa 10mila metri quadrati, come se dal mosaico del territorio venisse staccato un tassello dopo l’altro.
Sono i dati del Rapporto SNPA “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” di Ispra, che fotografa con precisione l’evoluzione di un fenomeno capace di incidere sulla qualità della vita, sull’ambiente e sugli ecosistemi. Il documento non si limita a registrare le criticità: emergono anche esperienze di rigenerazione e rinaturalizzazione che mostrano come invertire la rotta sia possibile.
Pavia non è messa benissimo: si piazza in 36esima posizione con un consumo di suolo in aumento nel 2024 del 9,6 per cento, comunque sotto la media lombarda, contro, va detto, il 41 per cento della provincia di Monza e Brianza. Pavia capoluogo ha un dato negativo con un consumo di suolo del 23,42 per cento. Qui sotto le tabelle di sintesi, mentre il rapporto completo è scaricabile dal sito di Ispra.

In dettaglio, al 2024 in 15 regioni risulta ormai consumato più del 5% di territorio, con massimi in Lombardia (12,22%), Veneto (11,86%) e Campania (10,61%). Il maggiore consumo di suolo annuale si osserva in Emilia-Romagna, che, con poco più di 1.000 ettari consumati (86% di tipo reversibile), è la regione con i valori più alti sia per le perdite sia per gli interventi di recupero, in Lombardia (834 ettari), Puglia (818 ettari), Sicilia (799 ettari) e Lazio (785 ettari). La crescita percentuale maggiore dell’ultimo anno è avvenuta in Sardegna (+0,83%), Abruzzo (+0,59%), Lazio (+0,56%) e Puglia (+0,52%), mentre l’Emilia-Romagna si ferma al +0,50%. Anche La Valle d’Aosta, che resta la regione con il consumo inferiore, aggiunge comunque più di 10 ettari di nuovo consumo. La Liguria (28 ettari) e il Molise (49 ettari) sono le uniche regioni, insieme alla Valle d’Aosta, con un consumo al di sotto di 50 ettari.
Pannelli fotovoltaici
Un altro dato interessante emerso dal report riguarda il consumo di suolo dovuto ai nuovi pannelli fotovoltaici, che risulta quadruplicato: si passa dai 420 ettari del 2023 a oltre 1.700 ettari del 2024 (dei quali l’80% su superfici precedentemente utilizzate ai fini agricoli) di suolo ricoperto, un aumento notevole se si considerano i 75 ettari e i 263 rilevati rispettivamente nel 2022 e nel 2023. Tra le regioni che destinano più territorio a questo tipo di impianti spiccano Lazio (443 ettari), Sardegna (293 ettari) e Sicilia (272 ettari). Passa, infine, dai 254 ettari del 2023 ai 132 ettari del 2024 la superficie destinata agli impianti fotovoltaici a terra come l’agrivoltaico che, limitando l’impatto sul suolo, non vengono considerati tra le cause di consumo.
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Pensioni, ingiustizie e polli di Trilussa

Pensionati sempre più poveri (foto generata con l’Ai) Se vogliamo avere un’ulteriore idea della (ingiusta) distribuzione del reddito, come al solito sono le statistiche e i numeri ad aiutarci, ricordando comunque che spesso molto dipende dalla loro interpretazione. Il governo, presentando la legge di bilancio, ha raccontato che tutto va bene. O almeno, meglio. Indicando alcuni numeri, dimenticandone altri. Ci ricorda Trilussa:
La Statistica
Sai ched’è la statistica? È ’na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.
Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.Dunque, ci sarebbe da capire il destino dei polli, o almeno, di alcune loro parti. Ma dicevo dei numeri, quelli attuali. Ci aiuta l’Inps, come ricordava nei giorni scorsi un trafiletto comparso sul quotidiano Il Sole 24 ore. Ecco il testo, leggetelo e provate a indovinare le ingiustizie. O almeno, che fine hanno fatto i polli.
“L’Osservatorio Inps evidenzia che i beneficiari di prestazioni pensionistiche sono 16.305.880 (+0,5% rispetto al 2023), con una media di 1,4 pensioni a testa (il 68% percepisce una sola prestazione, il 32% due o più). L’importo medio annuo dei trattamenti pensionistici è di 15.821 euro, ma il 53,9% delle pensioni ha un importo mensile inferiore ai mille euro e sono 4.581.952 i pensionati (28,1%) con reddito al di sotto di questa soglia. Resta forte il gap di genere, considerando che le donne hanno percepito in media una pensione di 12.772 euro, contro i 19.491 euro degli uomini: i redditi pensionistici femminili sono inferiori di oltre un terzo (-34%), a causa delle carriere lavorative discontinue, e del maggior ricorso al part time (spesso involontario). Tra i diversi gruppi quello più numeroso è dei titolari di pensioni di vecchiaia, pari a 11,4 milioni di persone, di cui il 28% cumula anche trattamenti di altro tipo. Seguono i titolari di pensioni ai superstiti (4,2 milioni). I beneficiari di prestazioni assistenziali sono 3,9 milioni, tra loro il 48% è titolare anche di prestazioni diverse (indennità di accompagnamento).”
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Tutto il buono del self publishing

Il buono dell’autopubblicazione (immagine realizzata con l’Ai) Internet mi ricorda che senza l’autopubblicazione non avremmo Alla ricerca del tempo perduto di Proust o Gli indifferenti di Moravia. Ma davvero, oggi come oggi, l’autopubblicazione (self publishing) di libri e musica è riservata ai dilettanti allo sbaraglio, a quelli che non trovano una casa editrice o un produttore musicale perché “scarsi”? Per quello che personalmente mi riguarda, i libri che ho pubblicato (quattro, poca roba) hanno avuto un editore “vero”, nel senso che mi ha pagato. Ma per la musica, faccio da solo, autopubblico. In questo caso, perché probabilmente nessuno me la produrrebbe… Quel che conta è divertirsi. Ma, questioni personali a parte, l’autopubblicazione ha una sua ragione d’essere. Mi è venuto in mente di parlarne dopo una lettura di un trafiletto su un giornale. Leggo infatti sul Sole 24 Ore: “Dal crowdfunding fino a un approccio ancora più diretto e indipendente. Un modo per preservare il pieno controllo creativo, i diritti editoriali e i tempi di pubblicazione, arrivando a un pubblico globale e mantenendo la coerenza di scrivere storie ispiratrici per le nuove generazioni. È il percorso di Francesca Cavallo, autrice, imprenditrice, produttrice. Pugliese di nascita, dopo un periodo negli Usa ora è a Roma. Qui a Colle Oppio, in una ex bisca clandestina degli anni 70 sta realizzando il suo headquarter: uno studio per scrivere libri e una sala di incisione per registrare podcast. Dopo il successo mondiale Cavallo ha scelto di pubblicare il suo secondo libro per bambini, “Storie spaziali per maschi del futuro”, con il self publishing. Obiettivo: non aderire alle convenzioni”. Va poi detto che, parere personalissimo, si iniziano a trovare libri e musica interessantissimi autoprodotti e gli strumenti ci sono, eccome. Mentre, nello stesso tempo, buona parte dei libri e della musica prodotti secondo le regole tradizionali sono, rispettivamente, illeggibili e inascoltabili. E spesso, uno uguale all’altro. Quindi, ben venga l’autopubblicazione. D’altro canto, mi spiegava chi del mondo editoriale si occupa di professione, oggi gli autori che attraverso i canali tradizionali vendono più di 5mila copie sono davvero pochi. E Vannacci (scusate il paragone) ha venduto decine di migliaia di copie su Amazon.
Quello che sappiamo dall’Ai
Non esistono dati pubblici precisi su quante copie esatte vendano individualmente i libri autopubblicati su Amazon, ma le statistiche annuali mostrano un mercato molto ampio, con oltre un milione di autori che pubblicano tramite Kindle Direct Publishing (KDP) e oltre 500 milioni di dollari di royalties distribuite ogni anno. Origini e prime forme
Forme di autopubblicazione esistevano già nel Settecento, quando personalità come Madame Pompadour si dotarono di tipografie private per diffondere i propri scritti e influenzare il gusto letterario e politico francese. Nell’Ottocento, con la diffusione della stampa e l’alfabetizzazione di massa, aumentò il numero di autori che pubblicavano a proprie spese. Johann Wolfgang von Goethe fu tra i primi a farlo in Germania, anticipando la nascita dell’autore moderno come figura indipendente.
Molti grandi scrittori del Novecento cominciarono la propria carriera grazie all’autopubblicazione. Marcel Proust nel 1913 pubblicò a sue spese Dalla parte di Swann, primo volume de Alla ricerca del tempo perduto, dopo essere stato rifiutato da più editori. Jorge Luis Borges nel 1923 stampò autonomamente la raccolta poetica Fervor de Buenos Aires, regalandone copie ai critici letterari di Buenos Aires. Anche Margaret Atwood realizzò e distribuì da sola la sua prima raccolta poetica, Double Persephone (1961), con una tiratura artigianale di 220 copie. In Italia, Italo Svevo e Alberto Moravia si finanziarono da sé le prime opere, come Una vita e Gli indifferenti.
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Sanità a due velocità, anche a Pavia: un rapporto

Un pronto soccorso: foto generata con Ai Nel 2023 in Italia sono stati registrati oltre 18,5 milioni di accessi ai pronto soccorso, e nel 67% dei casi la visita medica è avvenuta entro i limiti di tempo previsti dal triage infermieristico. È quanto emerge dalla quarta Indagine nazionale sullo stato di attuazione delle reti tempo-dipendenti, realizzata da Agenas e presentata a Roma. La rilevazione mostra tuttavia ampie differenze regionali: la percentuale di accessi entro i tempi di triage varia dal 53% in Sardegna all’86% in Basilicata. In dettaglio, il 94% dei codici bianchi riceve la visita entro 240 minuti, l’80% dei verdi entro 120 minuti, il 61% degli azzurri entro un’ora, mentre solo il 35% dei gialli e il 40% degli arancioni vengono valutati entro i 15 minuti previsti. Oltre il 60% degli accessi complessivi riguarda casi non gravi (codici bianchi e verdi), a fronte di appena 2,3% di codici rossi. Un dato che conferma come il pronto soccorso resti spesso il primo punto di riferimento anche per bisogni di bassa complessità. La relazione Agenas colloca questi numeri all’interno di un monitoraggio più ampio delle reti tempo-dipendenti – emergenza-urgenza, infarto, ictus e trauma maggiore – che nel 2023 hanno registrato miglioramenti nell’organizzazione e nella tempestività d’intervento, ma con forte eterogeneità territoriale. In parallelo, l’indagine analizza la accessibilità territoriale ai presidi d’emergenza: il 76% della popolazione può raggiungere un pronto soccorso in meno di 30 minuti, con punte superiori all’80% in Emilia-Romagna e Veneto, ma sotto il 60% in Sardegna e Calabria.
La situazione di Pavia
Si possono fare solo esempi random e qualche confronto regionale o provinciale, perché un giudizio preciso richiederebbe un’analisi più approfondita. Possiamo però dire, per quello che riguarda i “traumi severi”, immaginiamo un incidente stradale, la mortalità a 30 giorni è del 23,97%, molto meglio degli ospedali di Vigevano (49,18%) e Voghera (54,55%), ma peggio, per dire, del Niguarda (14,74%). Differenze enormi, che richiedono una spiegazione esperta prima di esprimere giudizi. Anche per la Rete Ictus, ci sono differenze: il San Matteo di Pavia ha una mortalità (dopo 30 giorni) del 7% mentre per Vigevano e Voghera mancano i dati. San Matteo meglio, ad esempio, del Poma di Mantova (11,6%). Infine, anche per la Rete Cardiologica, la mortalità a 30 giorni del San Matteo è del 7% (prestazione media), mentre Vigevano e Voghera ottengono rispettivamament il 5,79% e l’11,91%.
Insomma, anche al nord ci sono differenze, e se si ha voglia di consultare il rapporto molto completo (disponibile on line cliccando qui), si scoprirà che il divario non è solo tra regioni o parti d’Italia.
Come scrive Il Foglio: “C’è un orologio che segna il tempo delle emergenze sanitarie in Ita- lia, e non batte allo stesso ritmo dap- pertutto. A volte corre veloce, salva vite, restituisce persone alle loro fami- glie. Altre volte arranca, perde minuti preziosi, e quelle vite le perde davvero. Il rapporto Agenas sulle Reti tempo-dipendenti che monitorano infarti, ictus e traumi gravi ci racconta proprio questo: un’Italia a due velocità. C’è l’Italia dove se hai un infarto grave hai il 69 per cento di probabilità di essere trattato con un’angioplastica salvavita entro 90 minuti, come in Veneto. E c’è l’Italia dove questa probabilità scende al 41,9 per cento, come in Sardegna. Differenze che decidono se una persona sopravvive o no. Ma è quando parliamo di traumi gravi – gli incidenti stradali, le cadute disastrose – che le differenze diventano ancora più crude. In Calabria quasi una persona su due che subisce un trauma maggiore muore entro 30 giorni. In Toscana, meno di una ogni cinque. Perché? Perché in Toscana è più probabile che tu venga preso in carico immediatamente da un Centro trauma di alta specializzazione, mentre in altre regioni questo non è affatto scontato. Allora viene da chiedersi: com’è possibile? La risposta è che in Italia manca una regia unitaria delle emergenze. Solo 8 regioni su 21 hanno un coordinamento vero delle reti emergency. Nelle altre, ogni ospe- dale o ogni Asl fa un po’ per conto suo. E i risultati si vedono. Servono Stroke Unit che abbiano il numero giusto di posti letto, servono elicotteri del 118 che coprano tutto il territorio, servono protocolli chiari che facciano arrivare la persona giusta nel posto giusto al momento giusto. In molte zone questo già avviene, e i risultati sono eccellenti. In altre, no. Il problema non è solo di soldi ma soprattutto di organizzazione. Di volontà politica. Di saper prendere a modello ciò che già che funziona.
Quando si parla di emergenze, ogni minuto conta. E il rapporto Agenas ci dice che in Italia il valore di un minuto dipende ancora troppo da dove ci si trova.”
